domenica 26 giugno 2011

Emozioni - 2


La mia esperienza di architetto, assieme alle mie personali inclinazioni e attitudini, mi hanno portata a comprendere come, in qualsiasi settore merceologico - ivi compreso il prodotto architettonico in tutte le sue multiformi manifestazioni - la dimensione emozionale sia ciò che primariamente spinge gli individui nelle proprie scelte. Ciascuno di noi decide, acquista, usufruisce, si muove, opera scelte di vita esclusivamente in risposta alle proprie istanze emozionali.
L’osservazione dei comportamenti delle persone, specie nei confronti dei propri spazi di vita – la casa in particolare – bene ci informano sulle caratteristiche di funzionalità o di disfunzionalità emotiva nei confronti degli ambienti stessi. Se la relazione uomo/ambiente naturale ha da sempre ricadute benefiche, pacificanti e ristoratrici, il rapporto uomo/ambiente costruito risulta essere a volte equilibrata, a volte conflittuale. L’inconsapevolezza delle proprie dinamiche emozionali, quella che gli psicologi chiamano incompetenza emotiva, nell’ambito dei propri luoghi di vita, genera situazioni disfunzionali che possono incidere pesantemente sul benessere psicofisico di chi vive quei luoghi.

La mia ricerca è sostenuta da due principi cardine.
IL PRINCIPIO DI INTERRELAZIONE. Il filosofo catalano Raimon Panikkar dice: “un oggetto è reale solo nel momento in cui entra in rapporto con un altro (...) non ci sono oggetti isolati che sussistono indipendentemente dagli altri, tutto co-è”. Ce lo dicono le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia) - quando studiano come le interrelazioni ambientali condizionano i comportamenti, lo sviluppo degli individui e le generali condizioni di vita delle comunità - e ce lo dicono le scienze naturali, come la fisica e la biologia, quando parlano di campi e flussi di energia e di sistemi di equilibrio biodinamico, che incessantemente interagiscono.

Se il primo principio rappresenta lo sfondo semantico, il secondo costituisce un assunto programmatico, cui tengo particolarmente.
IL PRINCIPIO DELLA SUSSIDIARIETÀ. Ovvero, dal basso verso l’alto. Qualsiasi evoluzione o rivoluzione culturale prende avvio dalle singole persone che diventano collettive e, come realizzatori del costruito, dovremmo mettere ciascuna persona, intesa come individuo in relazione, in condizione di operare scelte consapevoli ed eticamente ecologiche al fine del benessere proprio e delle comunità. Come operatori del settore, dovremmo cioè, non solo fornire risposte ambientali e costruttive di qualità, bensì promuovere la consapevolezza del benessere finalizzata a una domanda di qualità.

In un'ottica interdisciplinare, direi olistica - avvalendoci del contributo di numerose discipline che vanno dalla filosofia alla fisiologia, dalle neuroscienze alle tradizioni orientali, dalla fisica all’ecologia, dalla psicologia alle tecniche di sviluppo personale - dovremmo accompagnare il fruitore attraverso un percorso di consapevolezza del proprio benessere psico-emotivo, all’interno dei propri ambienti di vita. Un percorso che, a partire dagli strumenti di comprensione e conoscenza dei meccanismi di relazione fisica ed emozionale uomo/ambiente costruito, conduca ad una fase concreta, ad un’esperienza pratica, diretta e personale di gestione dei luoghi della propria vita, di accudimento della propria “terza pelle”.

“C’è qualcosa su questo pianeta che dovrebbe essere fatta e probabilmente non lo sarà se non me ne occuperò io?"
Richard Buckminster-Fuller

domenica 5 giugno 2011

Mente - 2


“L’immaginazione è più importante della conoscenza”.
È una famosa frase di Albert Einstein. Questa affermazione, detta da un grande scienziato, sembra contraddittoria. Sembra, innanzitutto, che immaginazione e conoscenza siano antitetiche, poi che chi si occupa di spiegare la realtà fisica, o di agire nella realtà, debba avvalersi dei soli strumenti del sapere codificato e condiviso. Ciò è dovuto all’erronea interpretazione che comunemente si dà al verbo “immaginare”. All’immaginazione vengono associati concetti come “fantasia”, “sogno ad occhi aperti”, “irrealtà”, come se l’attività immaginativa fosse un esercizio superfluo e di lusso per menti oziose.
Viene spesso contrapposta alla concretezza, al fare operoso e basato su nozioni ed esperienze consolidate e, soprattutto, approvate dalle autorità vigenti, siano esse familiari, sociali o accademiche.

Se, da un alto, immaginare può equivalere a fantasticare, poiché deriva dal greco phantázō, dall’altro, si hanno altri sinonimi di immaginare come pre-vedere, intuire, escogitare, concepire, presumere, inventare. Tutti verbi che sembrano avere una maggiore dignità, o una maggiore concretezza, posto che quest’ultima sia una virtù tout court.
Immaginare significa, in prima istanza, pre-figurare, ossia proiettare (progettare) nella propria mente una realtà di cui non si è ancora fatto esperienza, ma che ne costituisce la premessa necessaria. Ciò che immaginiamo è ciò che ci guida nell’azione e l’azione prenderà la direzione di quella meta. La conoscenza è complementare ed è importante perché ci fornisce alcuni degli strumenti, benché non tutti, per attualizzare la realtà prefigurata. Forse per rendere attuale quella realtà sarà necessario concepire strumenti nuovi o modificare quelli codificati.
A questo proposito mi viene in mente un’altra affermazione di Einstein: “Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa... e la inventa”.
Nulla è stato ideato, scoperto o realizzato dall’uomo senza essere stato prima immaginato. Nessun progresso ha potuto manifestarsi senza l’immaginazione, l’intuizione, la visualizzazione di qualcuno.

Nessuno di noi procede nella vita senza immaginazione, solo che ne è inconsapevole. Di fatto, quando ci predisponiamo per recarci al supermercato, immancabilmente immaginiamo, visualizziamo ogni nostro passo per ottenere il risultato di fare la spesa. Ci prefiguriamo di prendere l’auto, di parcheggiare, di procurarci un carrello, di percorrere le corsie, di pagare alla cassa e di rientrare a casa col bottino. E un’infinità di altre cose intermedie e collaterali. La nostra mente è sempre immaginativa, ma non vi prestiamo attenzione. Non ci soffermiamo e non capiamo come funziona e qual’è il suo potenziale nella nostra realizzazione. Soprattutto non ci rendiamo conto di quando l’uso della nostra mente proiettiva è utile, superfluo o indispensabile e non siamo, pertanto, in grado di padroneggiarla per i nostri scopi.

Come architetto so bene cosa significa progettare. Così com’è impossibile progettare senza calarsi in un contesto, senza attingere informazioni, senza una preparazione, altrettanto lo è senza una grande sintesi immaginativa a priori.
Saper usare l’immaginazione significa saper progettare, pianificare, darsi degli obbiettivi piccoli o grandi in ogni ambito. L’attività immaginativa non “educata”, dato che è sempre in funzione, finisce col diventare un’inutile e dannosa attitudine, non già a progettare e finalizzare le nostre azioni, bensì a vagheggiare, rimpiangere, desiderare, sperare, senza alcuna finalità, salvo poi essere costantemente richiamati all’ordine dalle istanze e dalle urgenze del quotidiano e delle altre persone.
Ora, l’immaginazione può essere utile e rimanere al di sotto della consapevolezza per operazioni semplici e quotidiane come andare a fare la spesa, ma diventa uno strumento davvero indispensabile, se usata in modo corretto e consapevole, quando si tratta di questioni più complesse e importanti. L’immaginazione educata può portare a risultati straordinari, come... elaborare la teoria della relatività!

Il modo più semplice e intuitivo per educare la nostra mente immaginativa è quello di avvalersi di una delle sue componenti, ossia la visualizzazione.
Visualizzazione è un termine che si sente spesso nominare, ma di rado viene associato alla sua matrice, che è appunto l’attività immaginativa. Quella della visualizzazione è una “tecnica” che trova impiego corrente in molteplici settori: da quello architettonico, artistico e scientifico, dov’è assolutamente indispensabile, a quello sportivo e manageriale, dov’è straordinariamente utile. In tutti i casi si tratta di proiettare la realtà desiderata sullo schermo della nostra mente, in modo che abbia una forte componente visiva, dato che di tutti i nostri organi sensoriali, la vista è quella che ha maggior impatto sulla nostra mente, almeno a livello conscio. Una visualizzazione efficace deve prevedere una definizione il più accurata possibile dei dettagli ambientali (luce, colori, dinamicità) e della nostra persona collocata in quella realtà.
Proiettare immagini sullo schermo della nostra mente, tuttavia, non basta.
Per estrinsecare al meglio l’attività immaginativa è fondamentale cercare di associare alla visualizzazione tutti gli altri elementi sensoriali (suoni, odori, temperatura, percezioni tattili) e soprattutto richiamare a livello cosciente le emozioni che quella visione, quella realtà, ci suscita.

Nella visualizzazione mirata, e in generale nell’attività immaginativa, la componente emozionale è quella che attualizza l’esperienza, poiché agisce nel subconscio, e che ci informa se ciò che immaginiamo (progettiamo) ci procura benessere ed è bene per noi. Nel momento in cui immaginiamo e proviamo emozione per quella esperienza, la stiamo vivendo in modo completo, sia fisico che mentale, per nulla dissimile da come la vivremmo nella realtà “vera”. Questo è possibile per una caratteristica interessante del nostro cervello che è quella per cui la nostra mente non distingue tra realtà e immaginazione, tra un fatto accaduto e uno intensamente immaginato, tra esperienza fisica e suggestioni mentali.
È possibile, pertanto, educare la nostra mente immaginativa, così come quella cognitiva e quella emozionale, al fine di padroneggiarle e focalizzarle per ottenerne i maggiori benefici in termini di chiarezza e centratura dei propri obiettivi di vita.
A presto.

mercoledì 25 maggio 2011

Ambiente - 2


Sfido chiunque a sostenere di non provare benessere quando si immerge in un ambiente naturale, qualunque esso sia.
Ciascuno di noi ha le proprie preferenze circa i paesaggi e i luoghi, preferenze che si richiamano al proprio tono personale e alla personale esperienza. Ma tutti, proprio tutti, ci sentiamo bene su una spiaggia, in riva a un torrente, in mezzo a un bosco, in aperta campagna o anche solo nel giardino di casa.

Perché questo contatto ci procura tanto benessere? In massima parte perché riequilibra il nostro stato psico-fisico e ciò è dovuto al sintonizzarsi delle nostre vibrazioni fisiche e mentali con quelle della Natura, di cui siamo una manifestazione. In questi ambienti siamo più propriamente noi stessi, siamo portati a rallentare il ritmo, non solo delle nostre attività, bensì di tutto il nostro sistema corpo-mente. Rallenta il nostro sistema cardiovascolare, rallenta il nostro metabolismo, rallenta il chiachericcio mentale.

La sensazione di ben-essere informa l’organismo (e dovrebbe informare la nostra consapevolezza) che quella che stiamo provando è la dimensione corretta, il giusto modo di stare al mondo.
Nelle nostre vite quotidiane siamo continuamente distratti dal ricercare il benessere e pensiamo che ciò sia normale, che sia lo scotto da pagare al far parte di una società, all’essere produttivi. Pensiamo che la frenesia, la fretta, l’iperattività sia l’unico modo per rispondere alle richieste della nostra società, del lavoro, della famiglia. Releghiamo la ricerca del benessere alle ferie o ai fine settimana, che ovviamente spesso diventano un’ulteriore fonte di stress.

Il benessere è la condizione naturale che consente la perfetta funzionalità di un sistema organico, semplice o complesso, nello svolgimento di ogni sua attività primaria e superiore che possa esprimersi in modo efficiente ed efficace.
E questa condizione la si ottiene ritrovando la nostra naturalità. Non si tratta di un concetto astratto. Ritrovare la naturalità significa portare Natura nelle nostre vite, anche in modo molto semplice, introducendo una pianta o un animale in casa e prendendosene cura, ma soprattutto semplificando le nostre vite e creando quotidiani momenti di rallentamento.
Tali momenti possono proprio coincidere con l’accudimento che riserviamo ai nostri famigliari, al nostro cucciolo o al nostro ficus. Assolvere a un obbligo o a un impegno è lavoro, non accudimento. L’accudimento presuppone affettività. Dovremmo, in questi momenti, concentrare tutta l’attenzione, la calma e l’amorevolezza possibile.

Questi atteggiamenti ci riavvicinano alla nostra dimensione naturale e ci inducono una maggiore consapevolezza.

A presto.

mercoledì 18 maggio 2011

Ambiente - 1



Per l’architettura, l’ambiente è il territorio, con tutte le sue caratteristiche paesaggistiche e morfologiche e con il suo genius loci. È l’identità del luogo nel quale si inserisce l’elemento architettonico e con cui quest’ultimo entra in rapporto e dialoga (o dovrebbe dialogare).

Per la psicologia, l’ambiente fisico è “il di fuori”, direi “l’altro” da sé, ed è caratterizzato dalla sua proprietà di produrre stimoli che vengono percepiti, filtrati e interpretati dalla mente dell’individuo.

All’apparenza sembrano due punti di osservazione contrapposti. Nell’accezione architettonica, o urbanistica, sembra di trovarci di fronte ad una realtà oggettiva, sussistente indipendentemente dall’osservatore. D’altra parte, il punto di vista psicologico appare per definizione individuale, soggettivo e per questo meno “reale”.
Sappiamo bene che non vi è mai alcuna vera distinzione, tanto meno una contrapposizione, tra i diversi punti di vista che indagano uno stesso tema. Tutti i punti di vista sono veri. E sono particolarmente veri laddove si scova un principio comune che, in questo caso è dato dal concetto di “relazione”.
Concordo pienamente con Raimon Panikkar, il filosofo catalano, quando dice che “le diverse visioni del mondo sono i modi in cui gli uomini si rapportano alle cose” e che un oggetto è reale solo nel momento in cui entra in rapporto con un altro “non ci sono oggetti isolati che sussistono indipendentemente dagli altri, tutto co-è”.

Nel concetto di relazione entrano in gioco due elementi imprescindibili: lo spazio e l’energia. Dice ancora Panikkar “qualsiasi cosa esistente ha una relazione costitutiva con la materia/energia e lo spazio/tempo”. L’energia è la materia, in tutte le sue forme, da quelle più grossolane a quelle più raffinate, e quando entra in un rapporto di relazione si cala nella dimensione spazio-temporale dove siamo noi e tutto ciò che percepiamo, proviamo, pensiamo.
La fisica quantistica ci dice che la struttura della materia dipende dal tipo di vibrazione energetica che avviene a livello subatomico. Per cui, per certe vibrazioni “l’apparenza” materiale sarà quella di una pietra, mentre per vibrazioni ad altre frequenze avremo manifestazioni materiali di altro tipo, come i pensieri ad esempio. La stessa fisica, ci spiega come ogni cosa sia inserita in un continuum nel quale non vi è cesura di alcun tipo, l’universo è un unico campo energetico che localmente si condensa, per così dire, dando origine alle diverse forme di materia. Pertanto parlare di spazio come una porzione di vuoto (di assenza di cose) tra due gli oggetti, non ha più molto senso. Quello spazio è proprio il canale in cui di esplica la relazione tra quei due oggetti, che è sempre una relazione energetica.
Per questo, mi sembra interessante indagare proprio la nostra capacità di relazione, visto che “siamo” solo in quanto inseriti in un contesto relazionale di reciprocità, fosse anche solo con noi stessi.

Per parte mia, mi interessa capire la relazione che sussiste tra l’individuo e i suoi luoghi di vita e come questo interscambio incide sul reciproco benessere.
Ciò con cui entriamo in relazione è la nostra realtà, è il nostro ambiente esteriore e interiore, fatto di luoghi, di persone, di oggetti, ma anche di pensieri, di emozioni, di sensazioni e di interpretazioni. In questo senso siamo noi i creatori della realtà di cui facciamo esperienza e della qualità di tale realtà. Per questo è importante essere consapevoli del benessere nostro e di ogni cosa.

A presto.

sabato 14 maggio 2011

Mente - 1



La nostra mente opera a vari livelli e funziona secondo diversi modelli contemporaneamente.

Siamo in auto che guidiamo tranquillamente lungo un strada poco trafficata. Dopo oltre dieci anni di esperienza, la nostra guida è sicura e noi siamo perfettamente a nostro agio e rilassati. Mentre guidiamo, stiamo avendo un’interessante conversazione con il nostro amico a fianco a noi, abbiamo la radio accesa e i finestrini aperti in una splendida giornata primaverile. Teniamo d’occhio la strada, mentre continuiamo a parlare, e abbassiamo un po’ il volume della radio. All’improvviso sbuca un gatto dal ciglio della strada e noi freniamo bruscamente, evitando l’impatto. Dopo qualche secondo siamo inondati dall’adrenalina, abbiamo il cuore in fibrillazione e il fiato corto, sudiamo e cominciamo a capire lo scampato pericolo. Restiamo aggrappati al volante, il piede sul freno, finché non ci calmiamo...

Un esempio abbastanza classico e semplice per porci la domanda: di quante delle azioni descritte eravamo consapevoli? Ve lo dico io, tre:
- della conversazione con il nostro amico
- del dover abbassare un po’ la radio
- dello scampato pericolo
la nostra mente concia si è occupata solamente di questi tre eventi.
Ma, allora, “chi” ha fatto tutto il resto? “Chi” guidava e ci ha evitato un incidente?
La parte inconscia della nostra mente governa e gestisce il 95% di tutte le nostre attività (qualche studioso parla addirittura del 99%!) e questo significa che viviamo il 95% della nostra vita in modo inconsapevole.

Il nostro subconscio registra tutto dall’età prenatale in poi ed è particolarmente attivo fino ai 5-6 anni di età, quando si sviluppano maggiormente le facoltà cognitive. Gli EEG mostrano infatti le diverse frequenze dell’attività cerebrale che, sottoforma di onde, si modificano con l’età. Lo sviluppo della mante cognitiva va, in qualche modo, a sovrapporsi alla mente inconscia, relegandola ad un tono di fondo. Ma, lungi dall’essere zittito, il nostro subconscio, oltre a continuare la sua attività di registrazione, invia sempre per primo le risposte agli stimoli, attingendo da un enorme bacino di informazioni. A volte ci rendiamo conto che stiamo per avere una reazione “istintiva”, magari poco ortodossa in una certa circostanza, e decidiamo di cambiare comportamento, ma per lo più agiamo inconsciamente.
Ora, l’attività e le risposte comportamentali del nostro subconscio sono assolutamente indispensabili, specie quando si tratta di sopravvivenza. Nell’esempio precedente, le attività inconsce ci hanno permesso di guidare (attività fisica di grande coordinamento), di godere di una giornata primaverile e soprattutto di evitare un pericolo, il tutto “senza pensarci”. Chi non ha pensato, in realtà, è la sola mente conscia, occupata a conversare, mentre la mente inconscia pensava eccome e ha dato tutte risposte adeguate.
I problemi nascono, invece, quando deleghiamo il nostro inconscio a decidere per noi, a gestire fisiologia e comportamento, in circostanze che richiedono una maggiore elaborazione. Scelte complesse, decisioni importanti, relazioni interpersonali, sono situazioni nelle quali il modello reattivo del subconscio si rivela del tutto inadeguato, se non dannoso.

Conscio e subconscio costituiscono le due macro-sfere di attività mentale individuate dall’accademia, ma chissà cosa ci riserveranno le scoperte future... già oggi gli EEG di una persona in meditazione sembrano rivelare un’attività mentale ancora diversa, per non dire che le emozioni non vengono considerate un’attività mentale, almeno in occidente... vedremo. Intanto, con quel che sappiamo, possiamo già fare interessanti considerazioni, che svilupperò nei prossimi post.

Voglio concludere introducendo un secondo binario di funzionamento mentale. All’ormai universalmente accettato “modello elettrico” del nostro cervello si sta affiancando il “modello biochimico” e sembra che, se da un lato, l’attività elettrica del cervello ci informa su una quantità di aspetti, dall’altro, il fatto che la trasmissione di informazioni dal cervello a tutto l’organismo e viceversa avvenga per via biochimica (ad opera dei peptidi) apre degli scenari davvero sorprendenti!
Alla prossima.

venerdì 13 maggio 2011

Emozioni - 1


Quanto ci parlano di emozioni i media! Quanto sfruttano, smuovono, manipolano i nostri stati interiori per venderci qualcosa, qualsiasi cosa – prodotti e servizi, ma anche opinioni, credenze e valori, desideri, modelli di vita e di comportamento.
E quanto confondono emozioni e sentimenti...
Per "emozioni" o "stati emozionali", mi riferisco a precise condizioni psico-fisiche che non hanno ancora passato il filtro della nostra mente cognitiva per divenire presenti nella nostra consapevolezza ed eventualmente trasformarsi in sentimenti. Le emozioni sono condizioni pre-conscie che vengono detonate, nostro malgrado, da stimoli esterni o interni, per associazioni mentali. Parlo di quegli stati che condizionano la nostra mente e che percepiamo a livello fisiologico (normalmente nella parte toracica e addominale del nostro corpo), sui quali spesso non abbiamo il minimo controllo, sui quali non riflettiamo più di tanto e che il più delle volte non sappiamo nemmeno cosa li abbia suscitati. Li viviamo con una certa ansietà finché non passano e basta.
In occidente non esiste alcuna tradizione di "educazione mentale" che coinvolga tutti gli aspetti della nostra mente. La nostra cultura si è sempre concentrata sulla sola mente cognitiva, sulla sua parte logico-razionale, nutrendola di nozioni e informazioni e pretendendo il suo primato sulla mente inconscia - quel mare arcano, insondabile e temibile che ci ha tramandato Freud.
Per fortuna, dagli anni Settanta, le neuroscienze (considerate ahimè ancora oggi discipline “di frontiera”) hanno iniziato ad approfondire anche gli aspetti più reconditi dell’attività mentale, già presi in esame dai filosofi (uno per tutti Bertrand Russel) nei primi decenni del secolo scorso.
Anche la scienza sperimentale (e non più solo la Psicologia), pertanto, si è resa conto di alcuni “fenomeni” e che forse è possibile studiarli e ricavarne dati (quanto amiamo i dati!) da interpretare. Per ulteriore fortuna, molti neuroscienziati si sono resi conto che le tradizioni orientali indagano da millenni la mente e tutte le sue manifestazioni... incluse le emozioni. Dico “incluse la emozioni” perché è opinione comune considerarle altro dall’attività mentale, altro dal pensiero, come se le prime risiedessero nella nostra pancia, mentre il secondo nella nostra testa. In realtà tutto prende il via dal nostro cervello, infatti nella tradizione orientale non esiste nemmeno la parola “emozione”, è tutto pensiero, si tratta di stati mentali diversi ma della medesima natura.
In effetti il nostro mondo interiore, emotivo e mentale, ci sembra così esclusivo e personale che fatichiamo a immaginare meccanismi comuni a tutte le persone. Pensiamo al naufragio del nostro matrimonio e ci sembra che ciò che pensiamo e proviamo sia talmente individuale, talmente legato alla specificità nostra e della nostra esperienza, che mai nessuno potrà capire cosa ci succede. In parte è ovviamente così, ma esiste una quantità di studi ormai accademici che ci spiegano i meccanismi, i circuiti, le procedure che il nostro sistema corpo-mente attua di fronte a uno stress di quel tipo.
Capire questi meccanismi e acquisire la capacità di osservarli in azione e, magari, riuscire a intervenire per migliorarli, oltre che essere una meravigliosa avventura all’interno di noi stessi, si rivela un efficacissimo metodo per avere padronanza delle nostre scelte e delle nostre vite.

martedì 10 maggio 2011

Da dove cominciare...



Esiste una disciplina che si chiama Psicologia Ambientale e appartiene alla sfera umanistica. Pensavo che, per questa materia, con "ambientale" si intendessero solo l'ambiente famigliare, sociale, culturale con cui viene in contatto la psiche di un uomo. Invece ho scoperto che indaga anche gli effetti delle cose e degli ambienti costruiti, fisici, sulla mente dei soggetti.
Allora mi sono chiesta perché mai una disciplina così specifica e importante non sia materia di studio di chi un giorno progetterà e creerà questi ambienti. Perché mai i progettisti debbono rivolgersi a tradizioni orientali (penso al Feng Shui o al Vastu), così lontane e difficili, per integrare il proprio sapere tecnico con un sapere "umano".

Com'è noto in Italia, negli ambienti accademici vige uno spietato senso del "proprio orticello" in cui l'interdisciplinarietà viene a malapena intesa come uno scambio limitato alle materie e alle ricerche che rientrano direttamente e tradizionalmente nel proprio campo di competenza, meglio se entro le mura di cinta della propria facoltà.
Per questo pensare a una compenetrazione tra la sfera umanistica della Psicologia e quella tecnico-scientifica dell'Architettura e dell'Urbanistica sembra come voler mischiare l'olio con l'acqua.

Nella visione olistica, ormai universalmente accettata da tutta la Scienza moderna, del mondo, dell'uomo, della realtà, nella quale non è più concepibile scissione e separazione alcuna, ma dove tutto è in contatto con tutto e influisce su tutto, credo sia tempo per una seria riflessione sulla formazione accademica di chi è chiamato a creare spazi, involucri, "terze pelli" per gli uomini. Questi creatori di luoghi hanno una enorme responsabilità emozionale prima ancora che estetica.

Mi piace citare Beppe Grillo, che ha detto: "Gli architetti sono molto più pericolosi dei medici. L'errore di un medico, prima o poi, si seppellisce. Quello di un architetto rischia di rimanere per secoli a nuocere al prossimo".

Il fatto è che in Italia, ma non solo, non esiste una formazione "psicologica" per gli architetti. Esiste qualche materia che riguarda l'estetica, o meglio, la composizione architettonica che si richiama a canoni assolutamente astratti e vetusti. La bioarchitettura, poi, ci ha finalmente messo un po' più in contatto con l'ambiente e la sua sostenibilità. Ma noi architetti, a meno di approfondimenti e percorsi del tutto personali, siamo ben lontani dall'essere in grado di comprendere gli aspetti emotivi del nostro mestiere e di ciò che produciamo. Soprattutto di ciò che, con il nostro lavoro, produciamo sulla psiche degli altri.
La caratteristica di "emozionalità" di una cosa, di un prodotto o di un evento, sembra appartenere alle sole sfere della psicologia, dell'arte e del marketing. Credo che che questo aspetto debba, invece, essere integrato in modo preponderante nel processo di creazione di qualsiasi oggetto e di qualsiasi "situazione" che andrà a influire inevitabilmente sulle vite delle persone e sul loro benessere.

Nello svolgere la mia professione di architetto, ho sentito l'urgenza, direi etica, di indagare gli aspetti emotivi, consci e subconsci, che muovono chi crea e chi fruisce di quella creazione.
Questo blog vuole essere un posto dove esporre le mie idee, ma soprattutto una piattaforma di confronto e di scambio. Benvenuti!

Spero di interessare anche qualche mio collega...